“A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.” (Giovanni Falcone)
Il 23 maggio 1992 i sismografi siciliani dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrano una fortissima esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Una carica di 572 chili di esplosivo viene fatta saltare sotto un condotto dell’autostrada in direzione di Palermo, nei pressi dello svincolo di Capaci (Lirio Abbate, l’Espresso, 20 maggio 2016).
Il 23 maggio 1992 muore il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo.
Il 23 maggio 1992, finisce un’era e ne inizia un’altra.
Riavvolgiamo il nastro.
Cari lettori, non so se sia la scelta giusta rivolgersi direttamente a voi, ma, certa di rischiare, colgo l’occasione per raccontarvi una storia: una storia che mi ha accompagnata e tutt’ora mi accompagna nel mio percorso di studi, che mi ha fatto crescere come donna e come cittadina. Una storia avvincente, di amore, di rispetto per il proprio dovere; una storia da tramandare e tener viva, per noi, per chi non c’è più e per chi ci sarà.
Quando accade qualcosa di grave si tende sempre a ricordare dove si era o cosa si stava facendo in quei momenti e attimi fatali. Io, il 23 maggio 1992 non c’ero ancora, ma ho avuto la possibilità di incontrare ottimi testimoni per conoscere non solo che cosa sia successo, ma le loro sensazioni, impressioni, presentimenti.
La Palermo del tempo diffidava dei magistrati “antimafia”: “avevano messo il naso dove non dovevano”, “le sirene della scorta disturbavano i condomini”, “vogliono fare carriera”, “l’antimafia spettacolo”. “Palermo si scopre all’improvviso “garantista”. Si riempie di valorosi sostenitori delle libertà civili, che gridano instancabili al “rispetto delle regole”, che puntano il dito contro “quello che vuole arrestare tutti” (Attilio Bolzoni, Uomini soli, Melampo editori).
Uomini lasciati soli dai cittadini, dai colleghi, (c’era chi faceva la guerra a Falcone già da dentro il tribunale, perché magistrato esperto, conoscitore del fenomeno mafioso, con una spiccata capacità investigativa), dalla politica e dalle istituzioni.
Sì, anche la politica contribuì a far morire Giovanni Falcone: si candida al Consiglio Superiore della Magistratura, qualche anno dopo il maxiprocesso. È in questo momento che nasce l’idea della super procura, progetto già avviato da Chinnici con la creazione del pool antimafia. Scrive Falcone: “la necessità di un ufficio di procura coordinato […] renderebbe di gran lunga più incisiva l’azione dell’ufficio. Contribuisce a migliorare la professionalità del pubblico ministero e la sua specializzazione.” Viene bocciato sia il suo progetto che la candidatura al CSM: i magistrati italiani non lo votano, lo vogliono lontano, a Palermo, solo. Falcone è stanco, “capisce di essere finito in una trappola”. “Si sfoga. Parla delle vittime eccellenti di Palermo, ma in realtà stava parlando di sé stesso”: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello stato che lo stato non è riuscito a proteggere”.” È in questo momento che Falcone inizia a morire.
C’è tanto da scrivere e da imparare sul suo essere giudice: ci sono le strategie volte al contrasto della criminalità, c’è l’approccio con i condannati, con i pentiti; c’è il coraggio di un uomo attaccato da ogni fronte, l’ostinazione del magistrato che continua a svolgere il proprio lavoro; ci sono la stanchezza e le debolezze, la forza e la determinazione di chi ha sognato e voluto una Palermo migliore, una Sicilia migliore, un’Italia migliore.
Io, il 23 maggio 1992 non c’ero, ma ci sono oggi. Il mio dovere da cittadina, da conterranea di Giovanni Falcone, è quello di non far morire i suoi obiettivi, i suoi sogni, il suo lavoro. Conosceva il suo destino ma era altresì certo che qualcuno avrebbe portato avanti quanto costruito da lui, dal pool, da magistrati, uomini e donne impegnati nella lotta alla mafia.
Dissero “Falcone è finito”. Il 23 maggio 1992 si segna nella nostra storia un cambio di rotta, una rivoluzione, la rottura di ogni schema, la fine di un’era. Falcone non era finito. La sua morte rappresenta il seme di una meravigliosa pianta che cresce da 30 anni, con radici possenti, con rami forti, foglie appena nate o più “anziane”. È una pianta che rappresenta libertà, gratitudine, riconoscenza, voglia di cambiamento, speranza.
Io, il 23 maggio 1992 non c’ero, ma qualche anno fa mi trovavo a Palermo, proprio in quella data, in occasione del grande corteo organizzato per l’anniversario di morte del giudice.
Ero lì con ragazzi e ragazze per ricordare con forza che “la mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha avuto un inizio e avrà una fine”. Ho sentito la voglia di ridare a questa terra, che è la Sicilia, così dannata, così meravigliosa, la bellezza che si merita.
Quel 23 maggio è di colpo cambiata la mia vita, non ero più spettatrice, ma sono diventata protagonista. Ero lì fra le migliaia di bandiere con su scritto “Libera”, a condividere quella gioia di essere presente per ribadire che di ricordi si può vivere ma di azioni dobbiamo riempire le nostre idee. Ero lì a vedere una Palermo ritornata sui suoi passi, che si è rimboccata le maniche e ha capito quale fosse la strada giusta da percorrere.
Il 23 maggio è un giorno buio per la nostra storia: per la storia di noi siciliani, per la storia di noi italiani. Il 23 maggio è, però, il giorno in cui il seme di quella grande pianta che noi tutti oggi rappresentiamo nella lotta contro la mafia, ha iniziato a germogliare. L’auspicio più grande è quello di continuare a prendersi cura insieme di questa pianta, e di vedere giorno per giorno nuovi fiori di mille colori che la rendano più bella, più forte, più consapevole.
Dunque “Auguri Giovanni”, perché il 23 maggio è il giorno della tua rinascita e della nostra!